9..febbraio..2207 Buona fede e trattative precontrattuali

Il principio della buona fede è più volte menzionato dalle norme che regolano la disciplina del contratto: dall'art. 1337 c. c. relativo alle trattative precontrattuali, dall'art. 1358 c.c. in pendenza di una condizione, dall' art. 1375 che ne prevede l'applicazione nella fase esecutiva.
Consta in un principio generale mirante ad una valutazione del modus operandi e dell'attitudine di ciascun contraente nei confronti dell'altro: in altri termini le parti contrattuali devono comportarsi, ciascuna nei confronti dell'altra, con lealtà, correttezza onestà e solidarietà. A titolo esemplificativo, in fase di trattative, potrebbe concretizzarsi nell'obbligo di fornire tutte le informazioni possibili, riguardanti un determinato affare per non far interrompere le trattative stesse in modo ingiustificato, o in fase esecutiva del contratto potrebbe sostanziarsi nel attitudine volta a permettere alla controparte di adempiere alla propria obbligazione etc.
Al comportamento lesivo della buona fede, il codice e la giurisprudenza più recente ricollegano il rimedio, azionabile dalla parte lesa, del risarcimento del danno. Risarcimento che si fonda su una responsabilità di natura contrattuale o pre-contrattuale a seconda del caso di specie. La giurisprudenza esclude, invece, che possa essere invocata, in caso di malafede, l'invalidità del contratto o meglio la sua nullità; la nullità del contratto, infatti, è ravvisabile solo in caso di contrarietà a norme imperative che riguardano elementi endemici al contratto stesso e cioè alla struttura o al contenuto del medesimo. Essa va pertanto esclusa quando contrari a norme imperative siano comportamenti tenuti dalle parti nel corso delle trattative o durante l'esecuzione del contratto (Cass. n°19024 del 29 ottobre 2005).
Nelle fase precontrattuale il principio in esame tutela la parte che, facendo incolpevole affidamento nella conclusione di un contratto, vede venir meno la 'riuscita' dello stesso a causa del comportamento 'scorretto' ed ingiustificato della controparte. Il danno risarcibile, in tal caso, si ravvisa nel danno emergente (es. spese eseguite in vista della conclusione del contratto) e nell'interesse negativo o lucro cessante (perdita di altre occasioni contrattuali). La recente giurisprudenza estende poi l'applicazione dell'art. 1337 c.c. e del conseguente rimedio risarcitorio anche alle fattispecie in cui, invece di configurarsi una rottura ingiustificata delle trattative, si addiviene, anzi, alla conclusione di un contratto invalido o inefficace (art. artt. 1338 e 1398 c.c.) o si conclude un contratto valido, sia pure a condizioni diverse da quelle alle quali esso sarebbe stato stipulato senza l'interferenza del comportamento scorretto (art. 1440 c.c.). In tali due fattispecie, oltre ai rimedi dalle stesse espressamente e rispettivamente previsti, la parte lesa potrà, quindi, chiedere, in via alternativa od in via subordinata, la condanna al risarcimento del danno ex art. 1337 c.c..
Nella seconda fattispecie, infine, l'ammontare del danno sarà poi calcolato in base al "minor vantaggio o al maggior aggravio economico" determinato dal contegno sleale di una delle parti. Ed ad esso si aggiungerà un eventuale ed ulteriore danno che risultasse collegato a tale condotta "da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto" (Cass. 8318 del 16 agosto 1990).


Avv. Michele Mirante

 

 

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